Siamo lieti di annunciare la nomina di Youssef Sbai come primo docente di fede musulmana ad entrare nelle scuole italiane di Polizia Penitenziaria.
Youssef Sbai, 56 anni, ex vice presidente nazionale dell’Ucoii, l’Unione delle comunità islamiche in Italia, di cui è stato cofondatore,insegnerà islamologia al personale di polizia penitenziaria affinché gli agenti possano imparare a riconoscere tra i detenuti atteggiamenti di radicalizzazione, proselitismo alla violenza e cultura dell’odio occidentale.
Riportiamo qui di seguito un’intervista della testata “LINDRO”:
Youssef, in questi giorni l’agenzia Ansa e alcuni giornali hanno dato notizia della tua collaborazione con la polizia penitenziaria. Eppure, è passato un anno dall’inizio della tua attività di docente. Come mai la notizia è uscita solo oggi?
La notizia è uscita su un quotidiano del Marocco, che mi ha intervistato sulla mia attività di docente per la polizia penitenziaria italiana. Quando il pezzo è stato pubblicato, l’ho riportato sulla mia pagina Facebook. E così la notizia si è diffusa. In realtà, questi corsi di Islam e cultura araba non sono nuovi: sono anni che accademici italiani tengono lezioni di questo genere. La novità è che oggi il docente è musulmano.
Tieni i corsi direttamente nelle carceri?
No, solo nelle aule della polizia penitenziaria. Da quando ho iniziato a insegnare, ho cominciato a fare volontariato nelle carceri, dove incontro i detenuti di fede musulmana. Ma questa è un’altra storia: con la polizia faccio il docente, non l’imam.
Cosa insegni agli agenti?
Cerco di trasmettere una base di conoscenza dell’Islam, spiegando interpretazioni e differenze culturali tra i Paesi del Nord Africa e del Medio Oriente. Le pratiche religiose variano in base ai Paesi di provenienza: è un aspetto che non va sottovalutato. Ci sono alcuni indizi che aiutano a riconoscere gli atteggiamenti di radicalizzazione, anche se non vanno presi come i fenomeni delle scienze esatte. Invito gli agenti a farmi domande senza mezzi termini, a uno scambio aperto e proficuo. Facciamo un esempio: ogni musulmano deve fare la preghiera cinque volte al giorno, rispettando determinati orari. Questi orari non sono rigidi nell’Islam: il lasso di tempo in cui la preghiera può essere fatta si estende fino a tre ore. Se un detenuto rifiuta un interrogatorio perché deve fare la preghiera, qualche volta sta semplicemente utilizzando la religione a scopi personali.
Tu sapresti distinguere con certezza un estremista da un uomo semplicemente molto religioso?
Sì, personalmente sì. Cerco di indagare la sua pratica religiosa e di capire dove cerca le sue informazioni sull’Islam. Ci sono libri di indottrinamento che circolano solo sul web e che sono scritti dagli ideologi dell’Isis. Parlando con un musulmano sono in grado di comprendere il suo livello di educazione. Non è difficile distinguere chi ha ricevuto una forte educazione religiosa da chi è stato semplicemente indottrinato. E non dimentico mai che a volte si tratta solo di ignoranza. I giovani terroristi che hanno vissuto in Occidente, non hanno frequentato scuole religiose. Si sono radicalizzati sul web. I più pericolosi restano i radicali che conoscono bene l’Islam, hanno frequentato scuole religiose nei Paesi arabi e sono consapevoli della portata delle proprie convinzioni.
Hai mai collaborato in passato con la polizia o le istituzioni italiane contro il terrorismo?
No, mai prima.
Sei stato uno dei fondatori dell’Ucoii, vicino alla Fratellanza Musulmana. Sei stato anche Vice Presidente dell’Associazione. Perché il Ministero della Giustizia ha scelto te per questo compito?
Nell’Ucoii non c’è solo la Fratellanza Musulmana: al suo interno convivono numerose associazioni di tanti Paesi diversi. Ci sono gruppi e partiti di varia natura al suo interno. Dire che l’Ucoii appartiene alla Fratellanza significa mettere un’etichetta scorretta.
Perché non ci sono attentati terroristici di matrice islamica nel nostro Paese?
È un interrogativo diffuso. Ci sono tante letture: la politica estera italiana, quella interna, l’esperienza dei servizi di sicurezza italiani con il terrorismo degli anni di piombo. Quasi tutte le moschee italiane hanno rapporti con i servizi di sicurezza. Ma penso che sia così anche in Francia. Forse quello che rende diversa l’Italia è la politica di immigrazione: in Francia hanno costruito interi quartieri destinati agli immigrati alle periferie delle città, creando veri e propri ghetti. Alla prima generazione le cose sono andate bene così. Ma i giovani di seconda e terza generazione che hanno studiato in Francia, la pensano diversamente: spesso le commissioni scolastiche, che in Francia decidono i curriculum degli studenti, indirizzano i figli degli immigrati esclusivamente verso gli istituti professionali. Non sono gli studenti a scegliere liberamente l’indirizzo. In Italia non ci sono i ghetti per gli immigrati. E gli studenti figli di immigrati sono liberi di scegliersi il proprio futuro.